mercoledì 18 novembre 2015

cavia

Ore 2:38. Dal monitor riesco a tenerlo sotto controllo in modo perfetto. Anche al buio, grazie alla telecamera con gli infrarossi che ho installato. Si agita parecchio stanotte. Più del solito. Sto vagliando le varie opzioni per individuare quale sia quella che gli provoca maggiore disagio e dolore: ho impostato la temperatura del sotterraneo a quattro gradi celsius e lo vedo tremare e muoversi molto. Il vapore davanti alla sua bocca mi fa intuire che probabilmente sta urlando. Bene.
Continua a dondolare avanti e indietro tenendo le braccia conserte al corpo per riscaldarsi. Decido di accendere la luce per qualche minuto; tanto da illuderlo che qualcosa, della sua condizione, stia mutando.
Si copre gli occhi con le mani, ferito dal bagliore dei grossi neon che ho appeso al soffitto. Si guarda intorno smarrito, come al solito, e poi comincerà ad urlare e a prendere a pugni la porta in ferro, pur sapendo che è tutto inutile.
Prendo i miei appunti sul taccuino e mi rendo conto che non mi sta dando nulla di nuovo rispetto ai giorni precedenti.
Gli spengo la luce e vado a letto. Gli farò trovare, alla prossima accensione, pane secco e acqua in mezzo alla stanza. Si sta scervellando da giorni su come ci riesco ma è un trucchetto che non gli darò la soddisfazione di scoprire.
Ore 5:04. E' rannicchiato contro uno spigolo cercando di non disperdere calore corporeo. Nell'angolo di destra opposto alla porta il mucchietto delle sue deiezioni sta piano piano aumentando. Se non fosse per il sistema di ricambio che ho predisposto, l'aria là sotto sarebbe irrespirabile. Accendo.
Si riscuote e si guarda intorno. Trova il cibo in mezzo al pavimento e comincia ad urlare. Piange. E' solo la quarta volta. Controllo gli appunti. No, quinta.
Mangia voracemente continuando a camminare in tondo, poi si ferma improvvisamente, guarda verso la telecamera che, da giorni, gli lampeggia in faccia impudente, e... inizia a cantare. Non sento cosa stia cantando perchè, volutamente, non ho messo microfoni nella stanza. Dal labiale mi pare possa essere "Somewere over the rainbow". Canta ma non cede: siamo al nono giorno e ancora resiste. L'altro già al settimo prese a testate il muro fino a fracassarsi la testa.

lunedì 16 novembre 2015

"grazie"

Cammino sul marciapiede cercando di intravederlo attraverso le tenebre che, ormai, si impossessano del mondo già nel pomeriggio. Perso nei miei pensieri percepisco appena il rumore della bicicletta che, dietro di me, sta per raggiungermi. Istintivamente mi faccio da parte per lasciarla passare ben sapendo che, comunque, una bici non dovrebbe transitare sul percorso riservato ai pedoni. La cosa comunque non mi dà fastidio: con il buio precoce di questi giorni farebbe sentire più tranquillo anche me viaggiare fuori dalla sede stradale.
Mentre mi sorpassa mi dice una sola parola: "grazie".
Mi fermo a seguirla con lo sguardo mentre si allontana dopo aver risposto un sommesso "figurati!".
Ora come ora non so che faccia abbia avuto nè se si potesse definire bella o brutta. So che era sulla quarantina, bionda con i capelli relativamente corti e che pedalava spingendo sui pedali con i talloni, come i bimbi. Quello che, invece, mi è rimasto è quella singola parola, pronunciata con una voce che definire morbida o vellutata sarebbe riduttivo. Una singola parola pronunciata in modo... perfetto. Un intrinseco sorriso impresso nel timbro, nessuna inflessione. Una tonalità che accarezza l'aria mentre dalla sua bocca raggiunge le mie orecchie. Una voce che per mille altre parole avrei ascoltato.
Fermo sul marciapiede la guardo allontanarsi e mi rendo conto che la vorrei fermare. Vorrei urlarle "hey tu, torna qui. parlami ancora e ancora. Dimmi tante altre parole. Dimostrami che il mondo nasconde anche belle sorprese. Fammi stare bene!"
Ovviamente non faccio nulla se non guardarla scomparire lungo la via avvolta dal buio. Mentre riprendo a camminare penso che, anche solo per questo piccolo "grazie", la mia giornata, oggi, è un po' migliore di ieri.

domenica 8 novembre 2015

Perchè scrivo

Lo scorrere delle dita sulla tastiera non mi sembra mai abbastanza veloce. Ogni stupido errore per il quale sono costretto a tornare indietro a correggere, altro non è che un dosso rallentatraffico per il mio pensiero che corre molto più veloce di quanto la pesante fisicità di queste mani riescano ad assecondare. Il cervello viaggia, mastica, sviluppa e crea. Emozioni, giochi, pensieri. Tutto merita di essere trasferito su un supporto che, domani, mi permetterà di rivedere, rileggere, rivivere. Ciò che meriterà potrà anche essere condiviso. Solo a questo punto possono cominciare i problemi: i segreti più inconfessabili, se sottoposti al solo nostro giudizio, possono mitigarsi in una serie di scuse fittizie che, operosamente, ricamiamo loro intorno. Proprio alla stregua di un maglioncino su misura. Il tutto per rendere più accettabile quanto ci siamo prestati a mettere nero su bianco. Quando si passa alla fase successiva, però, dobbiamo prepararci a strappare questa coltre di finte motivazioni con le quali abbiamo cullato il nostro pensiero perchè, al mondo, non gliene frega nulla di giustificarci. Anzi, spesso il mondo non vede l'ora di sfogarsi e, ogni canale che permette questa esplosione di forza e rabbia e cattiveria è più che benvenuto.
Ma l'onestà intellettuale vince sempre. Vince sulle critiche distruttive, vince sulla cattiveria, vince sull'invidia che, a conti fatti, sono malattie dalle quali mi sento immune.
Quando il pensiero che guida la penna è trasparente, rispettoso, educato e... sorridente, il mondo lo accoglierà benevolo perchè il mondo ha bisogno di concretezza e positività. Di qualcosa a cui appoggiarsi che renda le verità più sopportabili.