Racconto: Il tempo non cura un bel niente!

Spazio dedicato ai lampi di scrittura che non possono essere trattenuti.


Racconto scritto nel 1990. Vintage nello stile e nei contenuti. L'ho riletto con un senso di tenerezza per il ragazzo che, non ancora ventenne, sognava un futuro da scrittore. Poi la vita... si sa: ti porta un pò dove vuole lei! Se vi piace fate +1 e condividetelo, potrebbe piacere anche ai vostri amici. In qualsiasi caso lasciatemi un commento. ;-)

Il tempo non cura un bel niente!
Cap. 1
1960 – Jim “the Big”

-Svelti ragazzi, Jim è ubriaco, e quando è ubriaco diventa pericoloso; sbattetelo fuori di qui!- Cinque ragazzi più che “ben piantati” alzarono di peso il gigante in divisa e lo fecero rotolare nella polvere fuori dal Blue Parrot.
Quando Jim The Big riprese i sensi si rese conto di essere a braccetto di Jack e Philip, due suoi commilitoni che lo stavano faticosamente trascinando al campo; la testa gli doleva e l’alcool che aveva in corpo non gli consentiva né di camminare diritto né di formulare una intera frase senza biascicare almeno la metà delle parole che aveva in mente.Jack e Philip ora gli erano accanto, lui li guardava, con sguardo offuscato e dondolante, dall’alto al basso. Non si era ancora completamente ripreso quando udì uno dei due ragazzi bisbigliare: - Hey guardate, c’è quella gran gnocca della moglie del capitano Tom Bosley, quella sì che è una cavalla-Nelle camerate dei soldati del campo non ce n’era uno che non avesse sognato di cavalcare la “signora T.B.”: Bo Bosley aveva da sempre stuzzicato la fantasia erotica dei subalterni di suo marito. Ora i suoi capelli lunghi e biondi, sulla carnagione abbronzata, luccicavano alla luce dei lampioni mentre attraversava la strada tenendo per mano il figlioletto assonnato di cinque anni.Probabilmente era andata a riprenderlo dalla signora Pairs, la babysitter di famiglia, ed ora stava tornando a casa per passare il resto della notte, dopo la serata al circolo ufficiali, con quello stronzo di T.B..Il suo miniabito nero esaltava ancora di più i suoi bei capelli e la sua figura sinuosa e Jim the Big non riuscì a resistere: si lanciò all’inseguimento lasciando i suoi compagni allibiti sul bordo della strada.La signora T.B. si accorse quasi subito del suo gigantesco inseguitore ed affrettò il passo; gli occhi arrossati di Jim the Big gli stampavano nel cervello fantasie morbose mentre l’adrenalina che gli pompava nel sangue lo spingeva sempre più veloce nel suo camminare scoordinato. La donna si trascinava dietro il bambino che cominciava ad accorgersi che ciò che stava vivendo non era proprio un gioco.Jim si spinse più veloce in un fremito inarrestabile, un brivido che lo faceva sentire immenso di fronte a quella troia bionda e si pregustava il momento in cui l’avrebbe piegata in due sul pavimento e le avrebbe alzato quel vestitino aderente per godere dei piaceri che quel culo liscio ed abbronzato sapeva sicuramente offrire.Nella sua fuga disperata verso la salvezza la signora T.B. si infilò nel vicolo che portava direttamente dietro casa sua, senza pensare che lasciare la strada illuminata sarebbe stato il suo più grande errore.Jim the Big la raggiunse. Le strappò il figlio dalle mani per lanciarlo contro la staccionata alla sua destra; si avventò su di lei prendendole entrambi i polsi con la mano sinistra e tenendoglieli alti sopra alla testa; infilò la sua grossa mano destra nella scollatura della donna stringendo forte il tessuto prezioso. Con un gesto secco verso il basso le strappò di dosso l’intero miniabito attillato trovandosela, vestita solo di mutandine e scarpe, tra le possenti braccia.Lei piangeva istericamente mentre il bestione si avventava sul suo corpo caldo spingendola ad inginocchiarsi davanti a lui; Jim passò alle sue spalle sempre tenendole i polsi in una morsa di ferro. Il bambino piangeva, stordito dal colpo contro il legno dello steccato e per quella sensazione di isterica impotenza che lo aveva assalito. Jim lo guardò e con un sogghigno ebro gli fece segno di guardare attentamente: piegò la donna in due davanti a sé inginocchiandosi a sua volta. Con la mano destra le calò le mutandine e, sempre con la destra, si calò i pantaloni della divisa e le grida si levarono alte. Troppo alte.

Ora Jim the Big era spaventato. Troppo spaventato.Mentre si riallacciava i calzoni intimò alla dona di stare zitta: non doveva parlare, non doveva dire a nessuno ciò che era successo! Ma più la ammoniva e più lei gridava, nel pianto, che gliela avrebbe fatta pagare, che tutto era finito, sarebbe stato giudicato dalla corte marziale e, infine, sarebbe morto arrostito dalla sedia elettrica!Questo non poteva succedere e il grosso sasso a terra accanto a lui avrebbe risolto ogni cosa.Jim scappò. Il bimbo piangeva, con gli occhi sgranati, davanti al corpo della madre dal cui cranio, fracassato, il sangue sgorgava a fiotti.Jim the Big, da quella notte, scomparve nel nulla.



Cap.2

1990 - James Parker "mano di ferro"


James Parker, detto “mano di ferro”, sortì dal suo ufficio risistemandosi l'enorme pancia sopra alla cintura. Essere sceriffo di un piccolo centro del Missouri come Rock Port avrebbe affogato nella noia chiunque, ma non il vecchio James.
Attraversò il cortile polveroso per affondarsi nella sua Chevrolet di pattuglia, arroventata dal sole del primo pomeriggio estivo. Si deterse il sudore dalla fronte con un gesto che, ormai, lo accompagnava da sempre nel suo grasso viaggio verso la vecchiaia. Con entrambe le mani: prima con il dorso della mano destra, poi con il palmo della sinistra. Probabilmente avrebbe usato il palmo di entrambe se non fosse che la sensazione di viscido e bagnato nella mano destra lo faceva sentire potenzialmente impotente davanti al calcio della trentotto che teneva infilata nel cinturone. Sapeva che, se gli fosse servita in un momento in cui aveva il palmo inzuppato dlle sue stesse secrezioni, se la sarebbe vista sfuggire di mano e volare, inesorabilmente, nella polvere mentre, l'eventuale fuorilegge, avrebbe avuto il tempo di assestargli in corpo almeno quattro colpi prima di darsi alla macchia.
Si asciugò le mani sui pantaloni e allungò la destra fino alla chiave di accensione. Il condizionatore si accese contemporaneamente al motore e cominciò a pompare aria fresca nell'abitacolo di James-mano di ferro. Qualche metro in retromarcia e si ritrovò sulla sud-road, la strada principale del piccolo centro.
Marciava lentamente, intorno alle quaranta miglia orarie, non di più e si pregustava la fila di sfidanti di oggi. La strada era deserta in quell'ora calda. C'era giusto qualche cane rintanato all'ombra davanti alle vecchie case in legno. Aveva così tempo e occasione di lasciare correre i pensieri alla attività che gli permetteva di sfuggire un po' dalla monotonia del luogo: il braccio di ferro. Da questo derivava il suo soprannome. Finora nessuno degli uomini della contea era riuscito a batterlo in quella prova, anche se la cosa poteva risultare comprensibile: la natura lo aveva dotato di una statura ben superiore al metro e novanta e di due spalle che avrebbero suscitato l'invidia di qualsiasi tagliaboschi. Tutto il grasso che era riuscito ad accumulare era dovuto ad una vita trascorsa tra scrivania e pattugliamenti in auto. Osservandolo un po' gli si sarebbero dati tutti i suoi cinquant'anni e, soprattutto, i suoi centosessanta chili.

Scese dalla macchina poco più di cinque minuti a sud dei confini cittadini, davanti ad un locale basso e largo di un colore misto di grigio e verde. James pensò che, in giornate così torride, il Bears-Bar non avrebbe dovuto avere pareti. Scacciò la riflessione aprendo la porta a zanzariera del locale.

La 308 GTO nera sfrecciava, apparentemente inarrestabile, a circa centotrenta miglia orarie sul nastro diritto e scuro che divideva in due il deserto: la scritta "Rock Port - limitare la velocità a 40 ml/h" risultò più come una impressione che una certezza all'uomo al volante che, nonostante tutto, decise di rallentare. Non voleva grane, almeno per il momento. Con il cartello erano cominciati alcuni radi alberi che andavano sempre più intensificandosi lungo la strada. Mentre assaporava il rumore del motore nello scalare in quarta, si tolse gli occhiali affidando gli occhi ai vetri leggermente scuriti della Ferrari; non aveva voglia di rallentare, possedeva quell'auto da circa tre anni e non aveva mai voluto separarsene. Ogni volta che ci si sedeva dentro, che cambiava marcia o che, semplicemente, impugnava il volante, si sentiva pervadere da un brivido caldo che gli portava il sangue alla testa facendolo sentire...immenso; molto più di quanto potesse fare una pista di cocaina.
Si costrinse a premere sul pedale del freno fino a quando la lancetta del tachimetro si fermò sul 40. Ora era più calmo: era arrivato e aveva qualcosa da fare.
Seguendo le indicazioni di un pannello pubblicitario si inserì, cinquecento metri più avanti, a sinistra della strada, in un largo piazzale polveroso che faceva da contorno ad una bassa costruzione sormontata dall'insegna "Bears Bar"; arrivò in tempo per vedere un armadio di un metro e novanta con circa settanta chili di troppo, in divisa, chiudersi la porta alle spalle e scomparire nel fresco dietro la zanzariera.
Scivolò con la sua auto lontano da quella dello sceriffo Parker, dai furgoni e dai pick-up parcheggiati davanti al bar, sul retro. Un'auto come la sua non era solita da quelle parti e non voleva dare nell'occhio. Lasciò il fresco dell'aria condizionata della 308 GTO con rammarico, si buttò nell'ombra stretta dell'edificio e lo costeggiò lungo tutto il lato fino all'entrata; richiudendosi la zanzariera alle spalle sostò brevemente nel vestibolo per abituare gli occhi all'oscurità del locale.
Larry fu l'unico che, mentre spillava una bionda dal fusto sotto pressione, gettò gli occhi verso la sagoma nera disegnata nel chiaro riquadro della porta; lo fece con un gesto automatico frutto di una abitudine maturata per trent'anni dietro al bancone.
Larry notò anche che si trattava di uno straniero, sicuramente uno "di città". Era abituato a vedere sagome o panciute e goffe ornate da cappelli da mandriano, oppure magre e piegate dal duro lavoro di quelli che, invece, tenevano in testa un berretto da baseball. La sua personale classificazione era ben definita e tipica di Rock Port: i pancioni e i magri. Non c'erano vie di mezzo (almeno non sopra una certa età), e in quelle due categorie i primi avevano il copricapo da cowboy e i secondi il tipico berretto sportivo abbinato, spesso, ad un fazzoletto (sempre lo stesso, come il cappello) lasciato sporgere dai jeans strausati. Forse per comodità, forse per vezzo e spirito americano.
Quella sagoma però si distingueva da tutte le altre, non era nè curva nè panciuta, di corporatura media, intorno al metro e ottanta.
Mentre Larry era intento nelle sue considerazioni e la bionda gli schiumava in mano, la sagoma si mosse verso di lui e prese posto nello sgabello di fronte, con decisione; allora il barman si svegliò e diede a Terry, la cameriera, l'ennesimo premio da portare a Mano-di-ferro.
Lo straniero, avvicinatosi al banco, si era appoggiato, di spalle, con i gomiti al bancone e sembrava assorto dalla prova di forza in corso tra Jimmy e Duke, un giovane e robusto contadino. Il tavolo dello sceriffo era ormai carico di tre caraffe di birra ormai vuote (il premio quotidiano di Jimmy).
Lo straniero non aspettò la fine dell'incontro tra Duke e lo sceriffo Parker ma si girò di scatto, come colpito da un pugno e si ritrovò a guardare, diritto negli occhi, Larry, che li aveva ancora a fuoco su Duke e, senza dargli il tempo di riprendersi, gli ordinò una birra. Larry gliela fece scivolare con un gesto meccanico dalla spina fino allo sgabello; lo straniero ne bevve un terzo in un sorso poi, senza levare gli occhi dal bicchiere, gli chiese: "c'è un motel in città?". -"Barney in paese affitta delle camere, certo. E' in viaggio di piacere?" si udì rispondere Larry senza averci pensato; L'uomo lo guadò con quell'aria da non sono cazzi tuoi, finì d'un fiato la birra, buttò un dollaro sul bancone e uscì.
Larry fiutava guai: "hey Jimmy, hai un minuto?", lo sceriffo buttò giù Duke aggiudicandosi l'ennesima birra e si diresse verso il bancone dove il barman aveva cominciato ad asciugare i bicchieri con il grembiule che portava legato alla vita.
Quando lo straniero uscì dal parcheggio e si immise sulla sud-road in direzione di Rock Port, Larry e lo sceriffo erano sulla soglia del "Bears Bar" che lo guardavano allontanarsi. Il viso pesante di Jimmy aveva un'espressione molto perplessa.




Cap.3

epilogo

Verso le 7.00 del mattino successivo, le grida di Annie, la moglie di Parker, svegliarono praticamente tutta la contea. Dalla bianca casa coloniale uscivano urla di terrore, orrore ed isterismo al tempo stesso, alternate a singulti soffocati che lasciavano presupporre l'inizio di un pianto interminabile; subito dopo il primo grido Jimmy si era precipitato giù dal letto per raggiungere la moglie nella camera di Tyna, la loro unica figlia.
Girando l'angolo del corridoio quasi inciampò in Annie, raggomitolata per terra a soffocare le urla tra le ginocchia; alzò gli occhi e, dopo averlo fatto, pensò che la prima cosa che avrebbe dovuto fare era allontanare sua moglie perchè le aveva quasi vomitato addosso. Sicuramente non avrebbe dimenticato quella scena per tutta la vita e, forse, persino dopo: sua figlia Tyna, una bambina di cinque anni e mezzo, era stata trattata come un maiale a fine estate, quando si fanno le scorte di salumi per l'inverno.
La testa, forse l'unica cosa intera in ogni sua parte, diritta sul collo troncato di netto, sul tavolino bianco accanto alla finestra ancora invaso da tutti i quaderni e le matite colorate che Tyna usava per la scuola; tutte le sue dita, sia quelle delle mani che quelle dei piedi, erano disposte ordinatamente sopra alla casa di Barbie in fondo alla stanza, dalle più piccole alle più grandi. a coppie.
Le gambe di Tyna, come le braccia, erano state appese al lampadario con delle striscioline di stoffa rosa che, probabilmente, erano ciò che restava della camicia da notte della bimba. Il corpo era adagiato sul letto, completamente nudo, con un taglio netto e preciso, come guidato da un righello, tra il pube e il collo; i due lembi di carne erano stati rovesciati mettendo alla luce le interiora e le ossa dello sterno sotto le quali erano visibili i polmoni e l'atrio che fino al giorno prima aveva ospitato il cuore della piccola, ora infilato sul pomo d'ottone del letto.
A fare da contorno a tutto questo c'era sangue. Ce n'era dappertutto: sul tavolino, sotto la testa che impregnava i quaderni e i lunghi capelli biondi della bimba; ce n'era sulla casa di Barbie, sui muri e sul letto ma soprattutto, ce n'era sul tappeto davanti alla porta sopra al quale pendevano le membra del povero corpicino. Il sangue lo aveva intriso completamente.
Jimmy entrò con passi leggeri, cosa assai difficile per un omone come lui, si avvicinò al tavolino bianco verso la testa della figlia, facendo bene attenzione a dove metteva i piedi. Raggiunse il tavolo dove, in un angolo non raggiunto dal sangue, c'era un biglietto, evidentemente strappato da uno dei quaderni della piccola, scritto con un pastello blu ancora appoggiato al foglio. Era talmente sconvolto dall'orrore che si svegliò di colpo solo quando lesse il foglietto. Si girò verso Annie la quale, sempre raggomitolata, lo guardava con quelle due palle rosse che ormai aveva al posto degli occhi; fece per andare verso di lei e non si accorse che le sue ciabatte si erano ormai del tutto impregnate nel tappeto, probabilmente utilizzato come tavolo operatorio.

In tutta la contea si stupirono molto che Jimmy-mano-di-ferro avesse lasciato archiviare questa storia con tanta facilità. Imputarono la cosa all'evidente shock che la cosa aveva creato e, ancora oggi, se qualcuno chiede informazioni sul caso, lui cambia subito argomento. Questo atteggiamento è sempre accompagnato da un nuovo e automatico gesto: quando si parla di Tyna, Jimmy si fruga nella tasca posteriore dei pantaloni e controlla che il portafogli sia ancora al suo posto. In quel portafogli conserva ancora il misterioso biglietto che trovò quel maledetto mattino. Su di esso sono ancora leggibili, scritte con il pastello blu, queste parole: "Ora che ti ho trovato ho pareggiato il conto, Jim The Big. 
firmato
T.B. Junior.









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